Non passa giorno che non ci arrivino notizie di barconi di migranti che tentando la fortuna scappano da paesi martoriati in guerra, dalle persecuzioni politiche o semplicemente dalla povertà. Sperano di arrivare in Europa, trovare la terra di Bengodi; invece trovano disagi, ostacoli e muri che sorgono ai confini tra i vari Stati. Non voglio entrare in un discorso prettamente politico o disquisire su disuguaglianze e numeri da esodo biblico. Non sono un politico e non ho conoscenze tali da poter esprimere un giudizio.
Un deja vù però mi torna fresco alla mente. Ci troviamo nel porto di Genova , un bel mattino dell’anno 1387. Chi va, chi viene, le navi caricano e scaricano a pieno ritmo. Zena è la New York del Medio Evo, di qua prima o poi passano tutti. Da una nave malconcia scende una famiglia che mostra cenci e povertà dignitosa: marito, moglie e tre figli minorenni. Non hanno nemmeno un cognome o almeno nessuno lo ricorda o lo sa pronunciare. Per fare prima sono chiamati Durazzo – tanto sono albanesi – e magari proprio da lì vengono. Proprio come altri loro conterranei questi Durazzo cercano una nuova terra, sono in fuga dai turchi ottomani che scorrazzano nella regione degli antenati; i nuovi arrivati sono cristiani e come tali vogliono vivere e professare la propria fede.
Il capostipite della famiglia si chiama Giorgio e pare che dopo l’imbarco su una galea siciliana – noleggiata per mettersi in salvo – un tradimento abbia trasformato quei passeggeri in schiavi, costretti a lavorare duramente per avere un passaggio nonostante avessero pagato un nolo salato per la fuga.
Sono stati venduti al doge Antoniotto Adorno, che una volta a conoscenza della storia decide di liberare Giorgio Durazzo e i suoi parenti. Due anni dopo, Giorgio protesta vivacemente con il governo genovese per il trattamento subito a Messina, per le catene schiavili che gli sono state imposte da un mercante genovese, Manuele de Valente, e del fatto che la storia mai accertata sia stata presa per buona. Meno male che il doge Adorno è un uomo giusto e avveduto!
Comunque tutto è bene quel che finisce bene. Giorgio – ormai uomo libero – si sistema a Genova e nel giro di pochi anni, forse un suo nipote, Antonio Durazzo, apre un negozio di seta e merceria nella zona di Pietraminuta. Sono passati meno di cento anni dallo sbarco .
Nel 1528 i Durazzo sono iscritti nell’Albergo dei Grimaldi. Ormai sono nobili a tutti gli effetti e pure molto ricchi. Nel corso dei secoli daranno nove Dogi alla Repubblica di Genova.
Il Palazzo Reale di via Balbi, che ospita nei soggiorni genovesi il Re d’Italia e consorte, è appartenuto precedentemente ai Durazzo, che l’avevano fatto costruire con gran magnificenza.
Ci sono stati anche altri personaggi importanti per la città con il cognome Durazzo. Quello che mi è più simpatico è Marcello Durazzo di Giovanni Luca (1710-1791) soprannominato Marcellino. Viene eletto Doge nel 1767. È ricchissimo e spende somme enormi come protettore delle belle arti e sotto il suo dogato viene restaurato il Palazzo Ducale, che poi sarà danneggiato nel 1777 da un incendio.
Adoro questo personaggio perché è legato alla mia infanzia. Quando ero piccola e facevo i capricci per avere qualcosa la mia lalla mi diceva: “Non ce l’ho il borsellino di Marcellino Durazzo!” sottintendendo così che solo l’enorme ricchezza di quel Doge poteva contentare i miei capricci e che sono lui – un Creso del XVIII secolo – avrebbe potuto permettersi tutto quello che gli capitava sotto mano.
Non ero l’unica a cui veniva detta questa frase. In fondo i bambini sono sempre bambini, XVIII secolo o XXI. Peccato però che certe espressioni tipicamente nostre siano andate perse.
CATERINA DE FORNARI