I più anziani di noi si ricorderanno senz’altro questa esclamazione accompagnata da un paio di sberle quando si facevano i capricci. Perché a Genova si dice così?
Immaginiamo la Zena di fine Ottocento. Un porto con navi a profusione; carvana, camalli e carbonin che van su e giù per i moli carichi all’inverosimile, il vocìo incessante di impiegati e padroni di scagni che confrontano merci e fatture. In mezzo a tutto questo una realtà pesante: tanti, troppi ragazzini abbandonati a se stessi, analfabeti, lasciati in mezzo alla strada a guadagnarsi da vivere con mezzi più o meno leciti. Dall’essere birichini o monelli a diventare delinquenti – in certi ambienti – il passo è breve e quasi obbligato.
Di questo si accorge Nicolò Garaventa che di mestiere fa l’insegnante di matematica al Liceo Doria e presso la Regia Scuola Tecnica. Il prof ama chiacchierare con tutti e un giorno si ferma a far due parole con un gruppo di operai. Mentre fanno capannello arriva un ragazzino veneto che comincia a raccontare la sua storia: è tanto triste e disgraziata da sembrare creata ad arte per strappare compassione e un’elemosina. Garaventa non è mica nato ieri; va a controllare i fatti e scopre che sono tutti veri.
Questa è la molla che lo fa scattare. Si presenta in Portoria – quartiere popolare e popolato – e si intrattiene con ventiquattro batôsi e parla con loro in zeneize proprio per essere ben chiaro e farsi capire. Propone ai monelli di cambiare la loro vita: un lavoro onesto, due palanche in tasca e il non dover più scappare se spunta la “Madama” all’angolo della strada. Accettano tutti e ventiquattro: il 1° dicembre 1883 nasce la «Scuola Redenzione» e la prima sede viene impiantata all’Acquasola, ma è poco più di una stamberga e per ospitare dei ragazzi non va bene.
Il professore non si accontenta di quei ventiquattro alunni mal combinati. Di notte, gira sotto i portici dell’Accademia – una sorta di corte dei miracoli quando cala l’imbrunire – e si affanna a raccattare ragazzi sotto i sedici anni avviati su una brutta china o già pregiudicati. Ne scrive persino il periodico «Il Successo»: «Sciù pe Riväta / in scïa Chêullia, in Ravecca e Borgosacco / a sorveggiä chi commettte a batusata / pe sarvalo d’andâ a vedde ö sô a scacco».
Il meglio sarebbe avere i ragazzi completamente isolati dall’ambiente circostante per evitare tentazioni, ma il carcere non piace a nessuno. Perché non usare un elemento naturale come il mare? Garaventa acquista un decrepito pontone in disarmo della Marina da Guerra, ovvero i resti del brigantino «Daino». Messa a nuovo l’imbarcazione viene ribattezzata: Redenzione. Dal nome del fondatore gli allievi sono conosciuti anche come Garaventini.
Una volta a bordo il batôso impara a leggere e scrivere se ancora non è capace. Poi viene indirizzato a una delle tre sezioni della nave: mozzi, allievi oppure macchinisti. Praticamente un istituto nautico full immersion. Nel 1892 sono stati inseriti nella società civile 178 ragazzi. Nel 1917 – Prima Guerra Mondiale – mille garaventini sono al fronte.
Alla morte del professore di matematica i suoi figli continuano la missione educativa e formativa. Nel 1941 con il bombardamento del porto di Genova la Redenzione va a fondo. I ragazzi vengono smistati in vari collegi in attesa di tempi migliori. Dopo la guerra la nave «Crotone» diventa la sesta e ultima unità della flotta scolastica.
Molto bello è l’inno della scuola creato da Costantino Gozzi: «Unn-a votta ëo …cos’ëo / Aöa sön…quello che sön / O crio forte: un nomme vëo / me l’ha daeto a Redenzion».
Quando vedo certi ragazzi per la strada penso che un po’ di Redenzione sarebbe necessaria. Oggi abbiamo offerte formative di tutti i generi, ma non so quanto successo abbiano in confronto al progetto di Garaventa.
CATERINA DE FORNARI